domenica 25 gennaio 2015

MBST, La tecnologia per evitare operazioni e Farmaci boicottata da 15 anni dalle lobby farmaceutiche!



Come sempre, quando emerge una tecnologia che potrebbe danneggiare le lobby, viene fatta sparire! Che fine ha fatto la “molecola anti-tumore”? Ma questo non avviene solo in ambito sanitario: brevetti di motori non alimentati dal petrolio (ce ne sono diversi, tutti “sotterrati”, e alcune volte sotto terra c’è finito anche l’inventore… vedi Stan Meyer) le scoperte di Nikola Tesla (utilizzate solo in ambito militare…) quelle di Pier Luigi Ighina, i brevetti della Keshe foundation, il cui rilascio è stato bloccato da Obama e molto altro!

MBST, la tecnologia per evitare operazioni e farmaci boicottata da 15 anni, alle case farmaceutiche farebbe perdere soldi !!

Si chiama MBST e si tratta di un brevetto tedesco esistente da quindici anni.




Come tante invenzioni è stata scoperta per caso. Un ingegnere si è accorto che la risonanza magnetica, utilizzata come esame diagnostico, riusciva a “gestire” problematiche come l’artrosi e l’osteoporosi. È iniziato così lo studio del fenomeno. Prima in vitro, e poi, dati i risultati incoraggianti, è partita la sperimentazione sull’uomo.

In pratica, e in parole povere, alcune cellule del corpo, magnetizzate dalla macchina, riescono a rigenerarsi. Si tratta dei condrociti e degli osteoblasti. I primi servono a sintetizzare la cartilagine e quindi possono guarire l’artrosi mentre i secondi, rigenerando l’osso, possono guarire l’osteoporosi.

I benefici per i pazienti potrebbero essere enormi. Potrebbero rimandare l’intervento chirurgico evitando l’impianto di protesi e corpi estranei nel corpo, evitare la riabilitazione (che a volte dura una vita), evitare il trattamento farmacologico e risparmiare tanti soldini. Decisamente troppi benefici per i pazienti e troppe entrate che verrebbero a mancare alle case farmaceutiche e affini. Sarà questo il motivo per cui la tecnologia MBST, a distanza di quindici anni è ancora sconosciuta? Probabilemente sì.


http://www.universo7p.it/mbst-tecnologia-per-evitare-operazioni-farmaci-boicottata-15-anni-dalle-lobby-farmaceutiche/

Scarpinato: “Il ddl sulla responsabilità mina l’autonomia dei magistrati”. - Alberto Samonà

Scarpinato: “Il ddl sulla responsabilità <br>mina l’autonomia dei magistrati”

Secondo il procuratore generale, intervenuto a Palermo all’inaugurazione dell’anno giudiziario, sarebbe un “occulto cavallo di Troia” in mano ai poteri forti, compresi quelli criminali.

Il ddl sulla responsabilità dei magistrati sarebbe un “occulto cavallo di Troia” e ridisegnerebbe gli equilibri costituzionali, mediante la costruzione di una “trama normativa in grado di mettere nelle mani dei poteri forti, tra i quali anche quelli criminali, obliqui strumenti di condizionamento dell’indipendenza e autonomia dei magistrati”. A parlare così è il procuratore generale Roberto Scarpinato, che, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, a Palermo. ha condensato le proprie critiche alla legge sulla responsabilità delle toghe.
In merito alla recrudescenza mafiosa, Scarpinato ha spiegato che “le intercettazioni ambientali effettuate in taluni procedimenti, ritraggono file di questuanti che pregano i boss mafiosi dei quartieri di fare ottenere loro una qualsiasi occupazione per sfamare la famiglia”.
Secondo il magistrato, poi, i meccanismi di liberazione anticipata, del rito abbreviato e della continuazione delle pene produrrebbero storture. Per fare un esempio, Scarpinato ha citato l’esempio di “un capomafia di Castellammare, condannato per estorsione al presidente di Confindustria di Trapani, che avrà una pena di soli 2 anni, 7 mesi e 15 giorni”.

Un’altra critica mossa da Scarpinato, è “il turn over tra carcere e stato di libertà per i mafiosi”: “Per alcuni capi che vengono arrestati – ha detto – ci sono quelli liberati per fine pena. Gli estorsori vengono arrestati e intanto ne escono altri che poi si presentano pur a chiedere le rate arretrate ai commercianti. Preoccupa anche l’assenza di risposte ai bisogni prima di sussistenza, l’assenza di un welfare state legale, perché molti tornano a bussare alle porte del welfare state mafioso”.

La Trattativa e il Romanzo Quirinale. La procura di Messineo e Ingroia. - Giuseppe Pipitone

La Trattativa e il Romanzo Quirinale <br>La procura di Messineo e Ingroia

La quarta e ultima puntata dell’inchiesta sulla storia dell’ufficio inquirente palermitano. L’indagine sul patto segreto tra lo Stato e Cosa Nostra, il processo per il mancato arresto di Provenzano, le polemiche bipartisan dal mondo politico e alla fine l’atto d’accusa del Csm: il procuratore capo avrebbe “spaccato” l’ufficio. (4-fine).

I giochi sembravano fatti. Nel 2006, quando Pietro Grasso viene spinto a guidare la Procura nazionale antimafia dalle leggi anti Caselli (poi dichiarate anticostituzionali) varate dal governo Berlusconi, a capo dell’ufficio inquirente di Palermo sembrava dovesse arrivare il suo fido braccio destro: Giuseppe Pignatone. Già bacchettato da Giovanni Falcone, poi passato alla pretura negli anni di Gian Carlo Caselli, durante la gestione Grasso, Pignatone torna in procura, dove diventa l’alter ego del capo. E infatti sarà lui a reggere l’interim tra il trasferimento di Grasso in via Giulia e l’elezione del nuovo procuratore al plenum del Csm. Una nomina che viaggia sul filo del rasoio, dato che Palazzo dei Marescialli è spaccato tra i due esponenti di Unicost: Guido Lo Forte, che ha raccolto il sostegno anche della corrente di sinistra delle toghe, ovvero Magistratura democratica, e lo stesso Pignatone appoggiato da Magistratura Indipendente, che invece è la corrente di destra.
Lo Forte o Pignatone: tra i due litiganti Messineo gode.
Un vero e proprio nodo, che si scioglie soltanto quando Unicost decide di convergere le proprie preferenze su Francesco Messineo, procuratore capo di Caltanissetta, che raccoglie il sostegno anche di Magistratura Indipendente. “Abbiamo voluto puntare su un candidato che avesse la qualità essenziale di essere un punto di riferimento per l’unità dell’ufficio, che fosse in grado di operare per la sua unità” spiega l’allora consigliere di Md Giovanni Salvi, oggi procuratore capo di Catania. Quasi una profezia al contrario, dato che anni dopo il Csm bacchetterà pesantemente Messineo con l’accusa di aver “spaccato” il suo ufficio. Durante gli otto anni di gestione Messineo, infatti, la procura di Palermo sarà attaccata a ritmo continuo da esponenti politici di tutti gli schieramenti. Oggetto della discordia sono le delicate inchieste aperte dal pool di magistrati coordinati dall’aggiunto Antonio Ingroia alla fine del primo decennio degli anni duemila.
Fascicoli delicati: il processo Mori e l’indagine Trattativa.
Dopo gli anni di Grasso, con le indagini che colpivano quasi esclusivamente gli esponenti militari di Cosa Nostra (e un solo politico d’alto livello rinviato a giudizio: Totò Cuffaro), l’arrivo di Messineo a Palermo coincide con l’inizio di una nuova stagione: quella che cercherà di fare luce sugli accordi segreti siglati negli anni delle stragi. Subito dopo l’insediamento, il primo fascicolo scottante che Messineo trova sul suo tavolo è quello relativo al mancato arresto di Bernardo Provenzano, localizzato in un casolare di Mezzojuso, in provincia di Palermo il 31 ottobre 1995. Indagati per favoreggiamento a Cosa Nostra nell’inchiesta coordinata da Antonio Ingroia, sono il generale del Ros Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Grande accusatore dei suoi ex superiori è colonnelloMichele Riccio che, tramite il confidente Luigi Ilardo, boss infiltrato in Cosa Nostra dal militare, avrebbe ricevuto la “soffiata” di un summit organizzato da Provenzano nelle campagne di Mezzojuso. Il via libera per effettuare il blitz ed arrestare il boss corleonese, però, non sarebbe mai arrivato, e Provenzano rimase latitante fino all’11 aprile del 2006. Poco tempo dopo il fallito blitz, e cioè il 10 maggio 1996, il confidente Ilardo venne assassinato in un agguato rimasto avvolto dal mistero, senza avere avuto il tempo di diventare a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia.
“Non c’erano le possibilità di intervenire in quanto il terreno era costantemente occupato da mucche, pastori e pecore” si giustifica davanti ai giudici Obinu. I due militari denunciano Riccio per calunnia, ma il gip Maria Pino lo assolve, mettendo nero su bianco le “plurime omissioni e inerzie del Ros dei carabinieri finalizzate a salvaguardare la latitanza di Provenzano”. Il processo che si apre nel 2008 è solo il prequel di un’altra indagine, aperta negli stessi mesi, destinata ad esporre la procura al fuoco incrociato di giornali, partiti politici e dello stesso Csm: e cioè quella sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Un’inchiesta che punta ad accertare come tra alcuni esponenti delle Istituzioni e il boss Bernardo Provenzano fosse stato siglato un vero e proprio patto per far cessare le stragi ed assicurare una convivenza tra Cosa nostra e lo Stato italiano. L’indagine prende spunto da un’intervista rilasciata da Massimo Ciancimino al settimanale Panorama il 19 dicembre del 2007: il figlio minore di don Vito, racconta di essere stato agganciato nel giugno del 1992 dal capitano Giuseppe De Donno. Da lì in poi De Donno e Mori inizieranno a incontrare Vito Ciancimino, che riferisce il contenuto di quegli incontri a Provenzano, e al signor Franco, un sedicente agente dei servizi con cui è in contatto dagli anni ’70. L’inchiesta della procura riceve ulteriore impulso dalla decisione di Gaspare Spatuzza, il killer di Brancaccio, di collaborare con la magistratura, e soprattutto dal repentino“recupero della memoria” che colpisce una serie di esponenti politici.
Smemorati di Stato a giudizio.
Decine di politici della Prima Repubblica sfilano, uno dopo l’altro, davanti ai pm di Palermo: da Carlo Azeglio Ciampi a Oscar Luigi Scalfaro, da Calogero Mannino a Ciriaco De Mita, passando per Luciano Violante, Vincenzo Scotti, Giuliano Amato. Parallelo cresce il fronte anti procura: dal Pdl, che vedrà il suo leader Marcello Dell’Utri finire indagato per il patto Stato–mafia, fino al Pd, il partito al quale ha aderito Nicola Mancino, finito a processo per falsa testimonianza. Un vero e proprio fuoco incrociato che esplode definitivamente nel giugno del 2012. quando la procura invia dodici avvisi di conclusione delle indagini: sono destinati ai boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, agli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri: tutti accusati del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: e cioè violenza o minaccia a corpi politici dello Stato. Alla sbarra anche Mancino, accusato come detto di falsa testimonianza, e il teste Ciancimino, imputato per concorso esterno e calunnia a Gianni De Gennaro (accusa che gli costa l’arresto nell’aprile 2011, ordinato dallo stesso Ingroia).
Polemiche, conflitti e procedimenti disciplinari: il Romanzo Quirinale
Solo che quegli avvisi di conclusione delle indagini non sono firmati da Messineo, che appone alla richiesta di rinvio a giudizio soltanto il canonico visto: una scelta che viene letta come un tentativo di “smarcarsi” dalla delicata indagine. In più, con la chiusura delle indagini, il pool che indaga sulla Trattativa perde un componente: si sfila infatti il pm Paolo Guido, sostituito da Francesco Del Bene, mentre il posto di Lia Sava, andata a Caltanissetta per fare l’aggiunto, viene occupato dal giovane Roberto Tartaglia. La vera ondata di polemiche però esplode dopo che viene resa nota l’esistenza di alcune intercettazioni tra lo stesso Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. È l’estate del 2012, a vent’anni esatti dalle stragi, quando il Quirinale prende una decisione inedita: sollevare un conflitto d’attribuzione contro la procura di Palermo davanti alla Corte Costituzionale. Conflitto che verrà preso in esame in tempi record e porterà poi alla distruzione delle intercettazioni telefoniche tra Mancino e Napolitano. E mentre il Colle trascina i pm davanti alla Consulta, una serie di procedimenti disciplinari viene avviata dal Csm contro i magistrati palermitani: un fascicolo era già stato aperto contro Antonio Ingroia, reo di essersi dichiarato “partigiano della Costituzione” ad un dibattito organizzato dal Partito dei Comunisti Italiani, mentre a Nino Di Matteo viene contestata un’intervista al quotidiano Repubblica, dove il pm conferma l’esistenza delle intercettazioni su Napolitano, già resa nota dal settimanalePanorama, definendole “non penalmente rilevanti”.
Banca Nuova, le indagini sul cognato, e la presunta incompatibilità ambientale
Nel frattempo Messineo finisce indagato dalla procura di Caltanissetta per un’intercettazione indiretta. Il capo dei pm palermitani viene registrato mentre parla al telefono con un dirigente di un importante istituto di credito, che chiede informazioni in merito ad un’indagine in corso. La conversazione tra Messineo e il manager, l’ex direttore generale di Banca Nuova Francesco Maiolini, è del 12 giugno 2012. Maiolini, sotto controllo per un’altra indagine condotta dalla Dda, per riciclaggio aggravato, chiede a Messineo spiegazioni su un avviso di identificazione ricevuto, relativo a una indagine per usura. Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia spedisce tutto a Caltanissetta, procura competente per eventuali reati commessi dai magistrati di Palermo: poi parte per il Guatemala, dove va a dirigere una commissione Onu, quindi torna in Italia per candidarsi (senza successo) alle elezioni politiche e infine appendere la toga al chiodo.

L’indagine nissena su Messineo verrà poi archiviata, ma alla fine del suo mandato al capo dei pm palermitani arriva una pesantissima bacchettata dal Csm: un procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale. Il motivo? “Non avrebbe favorito la circolazione delle informazioni all’interno dell’ufficio”, scrivono i consiglieri di Palazzo dei Marescialli nell’atto d’accusa. “Conseguenza – continuano i consiglieri – di questo difetto di coordinamento sarebbe stata la mancata cattura del latitante Matteo Messina Denaro” . Secondo l’indagine svolta tra i pm palermitani, le varie spaccature all’interno dell’ufficio inquirente siciliano sarebbero state alla base del “sospetto” che Messineo “avesse perso piena indipendenza” nei confronti di Ingroia, o che ci fosse comunque tra il procuratore e l’aggiunto un “rapporto privilegiato”, che avrebbe determinato un “condizionamento” del capo dell’ufficio. Il Csm fa cenno soprattutto ad uno dei nodi più spinosi addebitati a Messineo, l’indagine per intestazione fittizia dei beni per suo cognato Sergio Sacco. Inchiesta dalla quale, Messineo si asterrà sempre: il procedimento del Csm, però, gli costa comunque la possibilità di andare a dirigere la procura generale di Palermo. Il 30 luglio del 2014 il procuratore va in ferie, per poi andare in pensione un mese dopo. Il 17 dicembre, cinque mesi dopo, il Csm designa il suo successore: Franco Lo Voi.

Mattarella, da Tangentopoli alla corsa verso il Quirinale. - Sandra Rizza

Mattarella, da Tangentopoli <br>alla corsa verso il Quirinale

La vicenda giudiziaria del politico palermitano che oggi è tra i favoriti nella scalata al Colle. Coinvolto negli anni Novanta nell’inchiesta sulle mazzette ai leader siciliani di tutti i partiti, e tirato in ballo dalle dichiarazioni dell’imprenditore Filippo Salamone, il giudice della Corte Costituzionale è stato assolto ”perchè il fatto non sussiste”. L’avvocato Basilio Milio, difensore di Mori e Subranni, lo ha citato nel processo sulla trattativa Stato-mafia come teste della difesa. Se dovesse diventare il successore di Napolitano, sarebbe il secondo capo dello Stato a testimoniare in quel dibattimento. 
Alla vigilia delle elezioni politiche del ’92, aveva ricevuto nella sua segreteria di via Libertà a Palermo una busta: il mittente era l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone titolare della Impresem, che qualche anno dopo si sarebbe beccato un condanna per concorso in mafia con l’accusa di essere l’erede di Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Dentro quella busta, c’era parte di un blocchetto di buoni-benzina per un valore complessivo di tre milioni di lire. L’incorruttibile Sergio Mattarella, all’epoca deputato e commissario della Dc siciliana, raccontò di averli accettati come un regalo, ‘’di modesto valore’’, inviatogli a titolo personale da un privato cittadino, e di averli distribuiti dopo le elezioni ai suoi collaboratori. Ma per questo contributo, il notabile siciliano che oggi è considerato uno dei favoriti nella corsa per il Quirinale, finì per un decennio nel tritacarne del processo sulla Tangentopoli siciliana che negli anni Novanta travolse i vertici di tutti i partiti: dai Dc Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Angelo La Russa e Severino Citaristi, ai socialisti Nicola Capria e Nino Buttitta, al Pds Michelangelo Russo.
Scaturita dalle dichiarazioni di Salamone, l’inchiesta raccontò il sistema di spartizione delle tangenti (cifre tra i 150 e i 400 milioni) versate a deputati e segretari politici con l’obiettivo di orientare gli appalti e la spesa pubblica in Sicilia. Mattarella fu assolto dall’accusa di finanziamento illecito al suo partito ‘’perché il fatto non sussiste’’: l’ammontare dei tre milioni di lire non esponeva il parlamentare ad alcun obbligo di dichiarazione e i giudici non riuscirono a provare le accuse di Salamone, che sosteneva di avergli consegnato personalmente denaro per 50 milioni: 40 in contanti e 10 in buoni-benzina. Le parole dell’imprenditore, recita la sentenza di assoluzione, ‘’non hanno trovato alcun riscontro’’, non potendo ritenersi tale la copia della fattura da poco più di 197 milioni, rilasciata dalla Ip alla società di Salamone (poi scomparso nel 2012) di cui ‘’è del tutto incerta la destinazione’’. Sul punto, comunque, osserva il Tribunale, ‘’la pubblica accusa non ha svolto alcuno specifico accertamento al fine di verificare quali auto avessero usufruito dei buoni-benzina’’. Uno dei pm è Gaspare Sturzo, pronipote del fondatore del Partito Popolare, l’ispiratore di tutti i politici cresciuti all’ombra dello Scudocrociato.
Mattarella, insomma, la fa franca, e come lui gli altri imputati eccellenti, assolti in blocco dall’accusa di corruzione, tutti tranne l’ex assessore siciliano Turi Lombardo, condannato in primo grado a 4 anni, poi cancellati in appello. Un nulla di fatto, insomma. Ma il processo lascia comunque uno strascico di ‘’amarezza’’; dopo le accuse, Mattarella si dimette da commissario regionale Dc e dichiara: ‘’La mia famiglia mi fa notare di aver pagato prezzi troppo alti; ho preso decisioni spesso dure che mi hanno provocato avversione: qualche insidia era da mettere nel conto’’.
Un uomo senza macchia e senza paura: questa l’immagine che l’attuale giudice della Corte Costituzionale, fratello di Piersantiil presidente della Regione assassinato a Palermo da Cosa nostra nell’80ha sempre tenuto a presentare nell’agone politico, ma il suo nome torna a risuonare a sorpresa nell’appello del processo Andreotti, quando nel 2003 Pino Lipari, braccio destro del boss Provenzano, in aula racconta: ‘’Il contatto politico principale, quello più qualificato, si pensava fosse Salvo Lima, ma Cosa nostra attraverso i cugini Salvo aveva stabilito contatti anche con Mannino, con Nicolosi, attraverso l’imprenditore Salamone, con Ruffini, con Sergio Mattarella’’. E ancora: ‘’Non so se il padre di Mattarella avesse rapporti con Badalamenti, ma ritengo di si’’. Dichiarazioni senza seguito di un geometra che tenta di accreditarsi come pentito ma viene considerato un depistatore, che però fanno il paio con le parole che nel 2012 l’architetto Giuseppe Liga, condannato a 20 anni per associazione mafiosa e considerato l’erede del boss di San Lorenzo Salvatore Lo Piccolo, rilascia ad una rivista palermitana: ‘’Sono stato in contatto con Mattarella, il fratello Piersanti e Leoluca Orlando’’. Lui, Sergio, il diretto interessato, non ha mai replicato, preferendo la sobrietà del silenzio istituzionale. Dovrà intervenire, però, nel processo sulla trattativa Stato–mafia, dove il difensore degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, l’avvocato Basilio Milio, lo ha citato come teste: se dovesse essere eletto al Quirinale, sarebbe il secondo presidente in carica a dover testimoniare nel processo sul patto tra boss e istituzioni.

La faccia come il culo. - Andrea Scanzi



La faccia tosta di certa gente non smetterà mai di affascinarmi. 
Dunque, riassunto delle ultime puntate: il Movimento 5 Stelle, che in passato di harakiri tattici ne ha fatti non pochi, congela giustamente le Quirinarie e dice a Renzi di fare i nomi. 

Quei nomi verranno poi proposti agli iscritti, come accaduto per esempio con Silvana Sciarra alla Corte Costituzionale, nome Pd eletta grazie ai voti del M5S dopo consultazione online. 
La mossa è spiazzante perché fa saltare l'alibi eterno secondo cui il Pd "non aveva alternative" se non quella di organizzare orge sfascio-costituzionali con Verdini. 

Poiché spiazzante, larga parte dell'informazione glissa sull'apertura 5 Stelle e glissa ancor di più sul silenzio di Renzi. 
Il quale, ovviamente, non ci pensa neanche a fare i nomi, perché ha già deciso l'obbrobrio (o il soprammobile) da mettere al Quirinale assieme al suo maestro Silvio. 
Capita poi che, oggi, il deputato M5S Di Battista ribadisca quello che tutti già sapevano, ovvero che loro al Nazareno non ci vanno. 
E non ci vanno non perché "non partecipano ai giochi", ma perché hanno già chiesto a Renzi di fare i nomi (col rischio di dover poi appoggiare nomi indigesti come Prodi) e perché non amano i patti segreti a differenza dei renzusconani. 
Apriti cielo: subito è partita la grancassa mediatica secondo cui "I 5 Stelle si chiamano fuori", "tengono i voti in frigo" e "costringono Renzi a tornare da Berlusconi". 

Un totale stravolgimento della realtà. 

Un rincoglionimento sistematico delle masse. 

Per dirla col poeta: la faccia come il culo.

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1039863579363303&id=226105204072482&fref=nf